Ciò che resta delle campagne marchigiane!

I sette decimi (68,8%) della superficie regionale delle Marche sono costituiti da territorio collinare (comprensivo delle rare pianure). Si tratta di un’area importante e tradizionalmente occupata dalle attività agricole, oltre che dagli insediamenti urbani, artigianali ed industriali. Eppure, sia dal punto di vista economico che ambientale, le aree coltivate sono considerate un territorio neutro, privo di valori propri, solo un vago ed indistinto sfondo, una quinta della quale mancano precisi elementi identificativi che ci permettano di notare i suoi cambiamenti nel tempo e nello spazio. Il paesaggio delle campagne dell’Italia centrale, per oltre tre secoli (dalla metà del Seicento sino alla metà del Novecento), come osservava Sereni (1961) nella Storia del paesaggio agrario italiano, è stato caratterizzato dall’alberata tosco-umbro-marchigiana. L’evoluzione delle tecniche produttive, nell’ultimo mezzo secolo, accompagnata dal grande sviluppo della meccanizzazione e dall’esplosione dell’industria chimica, ha determinato un enorme cambiamento nelle modalità di coltivazione che, a loro volta, hanno prodotto profonde trasformazioni del paesaggio e degli ecosistemi agrari. Osservatori attenti della nostra realtà regionale, già alla fine degli anni Settanta, denunciavano modificazioni e rischi. Mangani e Anselmi (1979) così ammonivano ne Il territorio dei beni culturali (1979): “Se le cose continueranno così come sono andate negli ultimi tempi (ed è evidente che il problema è pubblico e non privato) è assai probabile che – senza migliorare l’economia agricola – distruggeremo, in dieci anni, ciò che il contadino marchigiano ha costruito in dieci secoli”.

La politica agricola è, nel frattempo, passata sostanzialmente nelle mani dell’Unione Europea e gli operatori del settore hanno gradualmente perso le tradizionali forme di aiuto e di sostegno, per entrare sempre più negli ingranaggi delle regole del mercato. La necessità di ridurre i tempi di lavorazione e i costi della manodopera ha spinto i produttori agricoli ad ampliare le superfici lavorate (a parità di tempo e di operatori impiegati) e ad ulteriori semplificazioni della vegetazione marginale, dell’idrografia minore e della morfologia dei terreni, determinando una condizione di progressivo aggravamento della fragilità dei versanti.

Perdita di biodiversità degli agroecosistemi

L’agroecosistema è una forma semplificata dell’ecosistema, in quanto l’ambiente agricolo viene il più possibile adattato alle esigenze produttive, favorendo le specie coltivate a discapito di quelle spontanee. Nel passato, il paesaggio agrario era caratterizzato da un maggior numero di elementi naturali, quali siepi, filari, boschetti e prati. Negli ultimi decenni, invece, il progressivo sviluppo della tecnologia (meccanizzazione, uso massiccio di prodotti di sintesi, monocolture sempre più estese e ripetute, scelte produttive avulse dal territorio) ha portato a una continua e inesorabile semplificazione del sistema, con la cancellazione di gran parte del reticolo idrografico minore e la scomparsa delle aree marginali e il sorgere di vari problemi di carattere ambientale. È stato possibile misurare la perdita di biodiversità del territorio agricolo marchigiano sulla base di dati diacronici (Taffetani, 2009; Taffetani et al., 2009) e applicando bio-indicatori specifici (Taffetani, Rismondo, 2009; Rismondo et al., 2011; Taffetani et al. 2011), dai quali risulta una vistosa perdita di biodiversità dei boschi residui collinari delle Marche a partire dagli anni ’60 (Taffetani, 2020).

Mentre quanto sopra accennato avveniva nelle zone collinari, vallive e costiere, in quasi tutta la fascia altocollinare e montana si realizzava un rapido e altrettanto rovinoso abbandono delle attività produttive agricole, zootecniche e forestali (Fig. 1). Paradossalmente i danni derivanti dall’eccessivo sfruttamento in collina e dall’abbandono del territorio in montagna hanno sortito effetti analoghi: perdita o erosione della biodiversità. Mentre è più facile intuire quanto accaduto nelle zone collinari e vallive (anche se mancano dati che permettano di misurare il grado di semplificazione raggiunto), risulta spesso incompreso il fenomeno di impoverimento della biodiversità avvenuto nelle aree montane e altocollinari: qui infatti si è assistito al processo opposto di abbandono delle attività produttive e di lento ma inesorabile esodo abitativo, con la conseguenza che sono aumentate le superfici forestali (un grado più elevato di maturazione dell’ecosistema) a discapito della semplificazione degli ambienti (perdita del mosaico dei campi e dei pascoli) e quindi con perdita di complessità e di biodiversità, per la ridotta capacità di offrire ambienti rifugio. In entrambi i casi, dal punto di vista della conservazione, è ormai evidente che gli strumenti di intervento non possano più essere costituiti solo da norme e divieti, ma si rende sempre più necessaria una politica di governo del territorio e delle attività produttive attenta alle dinamiche ambientali ed economico-sociali, oltre che all’interazione che molte scelte in settori produttivi diversi possono avere. È necessario quindi investire nelle attività di ricerca e di sperimentazione (ad oggi ancora largamente insufficienti), per avere gli strumenti informativi necessari per operare scelte consapevoli.

Ripensare le modalità di programmare lo sviluppo dell’Appennino

Gli eventi tellurici che hanno interessato recentemente l’Appennino centrale hanno messo in evidenza la gravità della condizione di chi vive in montagna. Esodo, emarginazione economica, marginalità sociale e strutturale, depredazione delle risorse. Ricostruire le case, in qualsiasi modo lo si voglia o lo si possa fare, riporterebbe, nel migliore dei casi, quelle popolazioni allo stato pre-sisma, ma non risolverebbe in alcun modo il rapido declino strutturale, economico, culturale e ambientale cui, da vari decenni, i territori marginali del nostro Appennino sono esposti. Occorre invertire rapidamente questa attuale tendenza allo sfruttamento irrazionale (agro-silvo-pastorale, turistico ed economico) delle aree interne svantaggiate e prendere coscienza che soltanto una equilibrata distribuzione delle risorse economiche ed un corretto sviluppo socio- economico delle aree montane permetterà alla nostra Regione di avviare una gestione sostenibile, intelligente e duratura delle risorse culturali ed ambientali custodite nei territori montani (questo cambiamento ci farà comprendere anche la gravità dei danni irreparabili di segno diametralmente opposto che stiamo producendo nella restante porzione della Regione). Purtroppo, molti sono stati gli errori che hanno impedito il decollo di una politica di sviluppo adeguatamente calibrata sulla montagna appenninica. Basti pensare alle perdite di interesse delle attività produttive legate all’allevamento e, di rimando, il miraggio del turismo invernale la cui gestione non è stata studiata per una realtà specifica come risulta essere l’Appennino ma è stato proposto solo come miope imitazione del turismo invernale sulle Alpi. Si auspica che possa essere colmata la scarsa attenzione ai problemi specifici dell’agricoltura e del turismo montano che non può considerarsi alla stregua delle tante forme di turismo di massa che caratterizza regioni diverse dalla nostra. Riportare l’allevamento in montagna produrrebbe benefici enormi per tutti. Va infatti ricordato che la conservazione dei pascoli e della biodiversità risulta strettamente legata alle attività di pascolo in quanto il mantenimento di queste impedisce il naturale processo dinamico di proliferazione degli alberi e degli arbusti che determina la perdita degli habitat di prateria secondaria. Peraltro, per riportare la zootecnia nelle aree della Rete Natura 2000, che sono in buona parte costituite da praterie secondarie, attentamente salvaguardate dall’UE, vi sarebbe possibilità di accesso a importanti finanziamenti europei. In questo modo, si incentiverebbero numerose possibilità di lavoro per i giovani e le piccole aziende familiari, alimentando le varie iniziative imprenditoriali della filiera agro-alimentare e del turismo gastronomico; si potrebbe garantire un futuro per prodotti tradizionali (che stanno scomparendo o perdendo qualità) e si potrebbe avere, come beneficio collaterale, una produzione di carni (e prodotti derivati) provenienti da animali allevati ed alimentati in condizioni sanitarie e fisiche che non mettono a rischio la loro e la nostra salute.

Fabio Taffetani

Lavori citati:

  • Mangani G., Anselmi S., 1979) – Il territorio dei beni culturali. La tutela paesistica delle Marche, in “Quaderni dell’Assessorato al Territorio”, Regione Marche, Ancona.
  • Rismondo M., Lancioni A., Taffetani F., 2011 – Integrated tools and methods for the analysis of agro-ecosystems functionality through vegetational investigations, in “Fitosociologia”, n. 48 (1): 41-52.
  • Sereni E., 1961 – Storia del paesaggio agrario italiano, Ed. Laterza, Bari.
  • Taffetani F., 2009 – Boschi residui in Italia tra paesaggio rurale e conservazione, in “Atti del 3° Congresso Nazionale di Selvicoltura”, Taormina 16-19 ottobre 2008, Firenze, (I): 283-294.
  • Taffetani F. (a cura di), 2020 – I boschi residui delle Marche. Un patrimonio culturale, ecologico ed economico insostituibile per la qualità del paesaggio e la sostenibilità ambientale degli agroecosistemi. Quaderni del Consiglio regionale delle Marche. 335: 1-285.
  • Taffetani F., Giannangeli A., Micheletti A. Rismondo M., Velo K., Zitti S., 2009 – Boschi residui: problematiche di conservazione, in “Natura Bresciana”, Ann. Mus. Civ. Sc. Nat., Brescia, 36: 231-236.
  • Taffetani F., Rismondo M., 2009 – Bioindicator system for the evaluation of the environmental qua- lity of agro-ecosystems, in “Fitosociologia”, n. 46 (2): 3-22.
  • Taffetani F., Rismondo M., Lancioni A., 2011 – Environmental Evaluation and Monitoring of Agro-Ecosystems Biodiversity, in “Ecosystems Biodiversity”, Oscar Grillo and Gianfranco Venora (Ed.), InTech: 333-370.

Immagine:

Area rurale alto-collinare. Nell’insieme la zona, mostra I segni di una estesa contaminazione dell’agricoltura industriale. Agricoltura che ha portato all’innesco di gravi fenomeni erosivi e di instabilità idrogeologica del versante, ben visibili nella porzione centrale dell’immagine, seguiti da un recente, iniziale e irreversibile fenomeno di abbandono!

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