Tre concetti per una nuova prospettiva politica – conclusione

Secondo l’antropologa americana Margaret Mead il primo segno di civiltà in una comunità umana è un femore rotto e poi guarito. Questo fatto indicherebbe la presenza all’interno di quel gruppo di pratiche di cura più o meno formalizzate. Uno o più membri si fanno carico dell’infortunio di una persona, lo soccorrono, lo portano al sicuro, lo assistono, lo curano. Nessun altra specie animale è in grado di farlo, qualunque altro animale ferito sarebbe destinato alla morte, solo gli esseri umani sono in grado di concepire e mettere in pratica azioni che di solito vengono adottate per l’allevamento dei piccoli. Siamo di fronte ad una sospensione temporale delle normali attività che viene supportata da tutto il gruppo.

Cosa significa, dunque, civiltà per l’antropologa americana, come viene intesa la parola, in senso storico o in senso morale? Margaret Mead usa il termine “primo segno di civiltà” evidentemente in senso etico-culturale, come tratto, come istituzione più o meno formalizzata, come insieme di comportamenti organizzati che si mettono in moto quando una persona ha bisogno di aiuto, non come lo stare in una città, non come essere semplicemente cittadini o come avere a disposizione strumenti tecnologici evoluti. La città nasce per fronteggiare in modo organizzato una serie di bisogni che riguardano tutti i membri della comunità, ma organizzandosi determina una divisione, una differenziazione di ruoli e di funzioni che alla lunga possono produrre separazione e isolamento. Questo non è un meccanismo automatico, ma in una città è più facile che l’altro diventi estraneo, mentre in una piccola comunità che può essere un gruppo di cacciatori-raccoglitori, un accampamento seminomade, un villaggio di dimensioni ridotte, l’altro è sempre una persona riconoscibile, forse anche collegato a ciascun altro da un legame di parentela: risulta pertanto più facile, spontaneo e naturale un atteggiamento empatico nei confronti dell’altro, basato sul farsi carico a livello collettivo di ciascuna difficoltà individuale.

Proviamo a pensare in modo più approfondito a quella comunità, a quel gruppo che si ferma e si riorganizza per far fronte ad una situazione critica. In quella comunità in cui ci si prende cura di una persona ferita o malata, c’è un gruppo di persone che ha deciso di andare in una determinata direzione, che si è impegnata congiuntamente per assistere quella persona, che si è impegnata congiuntamente per sostituirla nel suo ruolo all’interno della comunità, che si è impegnata congiuntamente per poter a turno assisterla, curarla ed essere sostituiti nel proprio ruolo all’interno della comunità che temporaneamente non si può svolgere. Una comunità che si prende cura di un proprio membro temporaneamente o permanentemente svantaggiato, è una comunità che ha deciso di organizzarsi nella direzione del bene comune attraverso l’azione di un noi collettivo. Una semplice questione di sopravvivenza? Un semplice calcolo costi-benefici? È possibile, ma da questo punto di vista potrebbe risultare altrettanto vantaggioso abbandonare al proprio destino la singola persona malata, concentrandosi sulla salvaguardia degli altri membri del gruppo. Qui c’è altro, una prospettiva diversa, l’idea che la totalità venga prima delle parti e che le parti non esistano in se stesse, sembra quasi che manchi la capacità di pensare a se stessi o alle altre persone come separati dal resto della comunità. La malattia, l’infortunio, non sono qualcosa che riguarda solo il singolo, non sono un fatto in-dividuale ma con-dividuale, sono qualcosa che interessa tutto il gruppo nel suo insieme, sono-diventano un fatto politico, basato probabilmente su di una interpretazione partecipativa e mistica del mondo. Quella comunità è un corpo collettivo e prendersi cura di una parte malata di quel corpo è un’azione naturale, che viene spontanea, istintiva.

Oggi noi che apparteniamo ad una cultura in cui prevale l’individualismo, la competizione e la strumentalizzazione, abbiamo bisogno urgente di nuove narrazioni capaci di concepire e sognare il tutto, con la salvezza individuale, oltretutto ultraterrena, ci facciamo ben poco. Abbiamo perso il senso della misura e del limite proprio delle culture che convivono partecipativamente con il mondo nel suo intero e per le quali è scontato, evidente, banale, pensare e credere che ogni parte è interconnessa con ogni altra e che rompere l’equilibrio del ciclo naturale in un punto o per un aspetto possa produrre conseguenze negative su tutto il resto. È per questo che bisogna prendersi cura di ogni essere. Una comunità aborigena protagonista del mitico film di Werner Herzog “Dove sognano le formiche verdi” è convinta, in base alle proprie credenze religiose, che la sua terra non possa essere trivellata dalle compagnie minerarie australiane: in quella terra abitano le formiche verdi che hanno bisogno di dormire e sognare in tranquillità altrimenti il loro risveglio potrebbe procurare la fine, non semplicemente di quell’area, ma di tutto il mondo. In questo racconto ci sono tutti gli elementi che ci servono: il sogno, il tutto, il limite, il prendersi cura.

È necessario pertanto estendere i concetti di con-dividuo, noi collettivo e cura a tutto l’esistente, animale, vegetale e minerale. Quei concetti che abbiamo cercato di esplorare non possono fermarsi agli angusti confini dell’umano, devono aprirsi all’intera realtà, perché come sosteneva Anassagora, grande filosofo greco del V secolo a.c., maestro di Socrate, “tutto è in tutto”. E se tutto è in tutto, se siamo sempre al tempo stesso ospiti e ospitanti, se condividiamo il respiro del mondo e come dice il filosofo Emanuele Coccia il nostro essere è sempre un essere mescolato con qualcos’altro, l’unica strada possibile è quella della convivenza e della condivisione con tutti gli altri esseri con cui entriamo in relazione: con tutti i con-dividui di qualunque natura siano, nella prospettiva di un noi collettivo basato su un impegno congiunto da parte degli umani che tenga conto delle ragioni di tutti gli aspetti del reale, attraverso la pratica del prendersi cura estesa a qualsiasi forma di esistenza. Una responsabilità gigantesca, che richiede un ampliamento dei nostri orizzonti etico-politici, ma che è al tempo stesso assolutamente indispensabile.

(fine?)

Fabrizio Leone

Write a comment