Uno dei termini che si usano di più quando si parla di sanità è “territorio”, magari nella versione “territoriale”. E molto spesso lo si utilizza in contrapposizione al termine “ospedale”. Ad esempio, la scorsa primavera nel corso della prima ondata della pandemia erano frequentissimi titoli del tipo “La battaglia contro il Covid si vince “prima” di arrivare in ospedale”. In questo periodo in cui si discute del Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) o Recovery Plan, come viene spesso chiamato, molti titoli e molte dichiarazioni parlano di questo Piano come una formidabile occasione per il rilancio della sanità territoriale. Vale allora la pena di andare un po’ più a fondo per vedere meglio cosa c’è dentro il termine di “sanità del territorio” e di fare qualche ragionamento sulla contrapposizione, vera o presunta, tra ospedale e territorio. Trattandosi di un tema di enorme complessità e trattandosi probabilmente del tema di fondo più importante nel dibattito sulla sanità in corso nel nostro Paese, ho ritenuto importante riservargli una serie. Meglio anticipare che si offriranno solo alcuni elementi di conoscenza ed alcuni spunti di riflessione senza la minima pretesa di esaustività.
Un buon punto di partenza è la presa d’atto che mentre parliamo di “ospedale” sappiamo più o meno tutti di cosa stiamo parlando, mentre quando parliamo di “territorio” ognuno ha in mente qualcosa di diverso. Infatti, pur nella sua grande evoluzione tecnologica, l’Ospedale nella sua struttura fisica ed organizzativa è rimasto in fondo lo stesso di sempre: il Pronto Soccorso, gli ambulatori, i reparti di degenza, il blocco operatorio, i servizi come la diagnostica per immagini (diventata un mondo di nuove tecnologie) e il laboratorio analisi, gli ambulatori, ecc. Ma anche i suoi riti sono rimasti gli stessi: il giro visita (a sua volta magari rivisitato), il colloquio con i familiari, i pasti in orari “strani”, ecc. E dovunque tu vada in Italia (e probabilmente nel mondo) queste caratteristiche comuni degli ospedali le ritrovi sempre seppure con livelli di qualità (da quella strutturale a quella organizzativa e professionale) diversissimi. Per il territorio no, la sua organizzazione e il suo funzionamento sono di fatto poco conosciuti da chi non ci lavora e persino da chi lavora in sanità, ma lavora in ospedale. Già il termine stesso di “territorio” rimanda a qualcosa di indefinito e sconosciuto. Ciononostante si parla spesso in modo indefinito di “territorio che non funziona” o di “debolezza del territorio”. A seconda di chi fa queste affermazioni ci si riferisce di volta in volta ai medici di medicina generale (MMG) che non farebbero da filtro o alla assistenza domiciliare che non c’è o alla mancanza di posti letto nelle strutture socio-assistenziali, mancanza che impedisce una dimissione tempestiva dall’ospedale.
Questa indeterminatezza “percepita” del ruolo e della organizzazione del territorio fanno sì che ci si affidi di più alla solidità dell’ospedale che almeno sai cos’è e che in ogni caso una risposta te la dà. La espressione di questa percezione la ritroviamo sia nell’eccessivo ricorso al Pronto Soccorso Ospedaliero che nell’attaccamento (a volte davvero morboso, come si usa dire) al proprio Ospedale di cui non si vuole né la riconversione né la riunificazione con un altro ospedale praticamente attaccato (da noi Pesaro e Fano, tanto per fare nomi).
E allora vediamo cosa c’è dentro il cosiddetto territorio o meglio cosa ci dovrebbe essere. Ovviamente procediamo a grandi pennellate per dare una prima forma al “territorio”. Avremo poi modo di tornare con tratti più precisi su tanti aspetti particolari che meritano una attenzione di dettaglio. Nel territorio ci dovrebbero essere tutti servizi e tutte le funzioni che aiutano la comunità ad ammalare di meno (la prevenzione), ad avere una gestione ambulatoriale e domiciliare di tutti i bisogni “acuti” emergenti di salute (associati a tutti i disturbi della più diversa natura di cui vogliamo conoscere la causa e di cui vorremmo la rapida soluzione) e, soprattutto, una gestione di tutte le condizioni “croniche” con cui dobbiamo convivere che ne ritardi e se possibili eviti l’aggravamento con tutte le conseguenze del caso. Questo termine “croniche” o il suo equivalente, questa volta sostantivato “cronicità”, è la chiave di volta per capire perché abbiamo bisogno di più territorio e di meno ospedale.
Accontentiamoci oggi (in fondo è solo la prima puntata) di provare ad elencare quali sono i problemi che definiamo cronici (tutte definizioni mie che potete buttare dove volete) partendo dalla definizione di “problema cronico”: è un problema la cui durata non si esaurisce in un arco di tempo di giorni o settimane e che richiede un trattamento non “puntuale nel tempo” ma un trattamento prolungato che ci fa parlare di “presa in carico”. Questa è un’altra parola chiave. La presa in carico richiede un percorso prolungato di gestione e trattamento della condizione che lo richiede, molto spesso multiprofessionale, multispecialistico e tale da richiedere più livelli di intervento di cui l’ospedale è l’ultimo livello cui meno ricorri e meglio è. Sottolineo queste cose che ripeterò spesso nella serie:
- dentro questa categoria della “cronicità” ci sono quasi tutte le condizioni di (non)salute che pesano di più sulla vita delle persone;
- di queste condizioni è prevalentemente il “territorio” che si deve occupare;
- investire solo o prevalentemente sull’ospedale vuol dire sottrarre risorse alla gestione di questi problemi;
- queste condizioni non “affliggono” solo una persona, ma anche la sua famiglia;
- queste condizioni richiedono spesso interventi sociali e si avvantaggiano di una risposta di comunità.
E adesso vediamoli questi problemi “cronici”. Essi sono fondamentalmente i seguenti:
- i problemi legati a condizioni di disagio/malattia nell’area della salute mentale, della neuropsichiatria infantile e delle dipendenze patologiche che possono in alcuni casi “guarire”, ma che richiedono in ogni caso trattamenti (prese in carico) complessi e prolungati;
- i problemi legati a condizioni/malattie che non possono guarire, ma che possono essere contenute dai percorsi di presa in carico territoriale (malattie respiratorie croniche, scompenso cardiaco, diabete, demenze, malattia di Parkinson, ecc.);
- i problemi legati a condizioni di disabilità grave quali ad esempio (mi limito ad uno solo) quelle determinate dalle malattie neuromuscolari;
- i problemi della persona anziana non autosufficiente;
- i problemi delle persone da avviare ad un percorso di palliazione e quindi affetti da condizioni/malattie che non più “guaribili” vanno prese in carico per garantire alla vita residua la migliore qualità possibile (e non sono solo i tumori a determinare questa esigenza).
Ecco, il territorio di questo si dovrebbe occupare. Non solo, come vedremo, ma soprattutto. E quindi già da questa prima puntata dovremmo aver capito che se si rinuncia al potenziamento del territorio si rinuncia alla miglior gestione delle situazioni di maggior peso sanitario (e spesso sociale) delle persone e delle famiglie.
Claudio Maria Maffei
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