Il ruolo del privato nella sanità delle Marche: prendiamo le Case di Cura Multispecialistiche

Io non sono a priori contro la sanità privata e diffido di chi liquida il tema del rapporto pubblico-privato in sanità con una battuta del tipo “non si specula sulla salute” o “la sanità non può generare profitti”. Credo che il tema sia importantissimo e complesso e meriti di essere trattato con cognizione di causa. Ad esempio per dimostrare che il rapporto pubblico-privato in sanità così com’è oggi è sbagliato e che va corretto, ma dati alla mano e senza pregiudizi. È a mio parere sbagliato ipersemplificare il tema dimenticando che per sua natura anche la sanità pubblica (termine su cui torneremo tra poco) genera profitti, come quelli delle Aziende farmaceutiche, di quelle che producono tecnologia sanitaria o che gestiscono la manutenzione e così via. Ma anche i “profitti” degli operatori ad esempio attraverso la attività in libera professione.

Prenderò oggi in esame una delle componenti della sanità privata delle Marche e cioè il settore delle Case di Cura Multispecialistiche. Sono quelle strutture che si occupano di più discipline differenziandosi così dalle strutture monospecialistiche che si occupano di salute mentale e di riabilitazione. Per un ragionamento sulle Case di Cura Multispecialistiche ci vengono in aiuto i dati desumibili dall’Allegato E al Bilancio di Esercizio 2020 dell’Azienda Sanitaria Unica della Regione Marche (ASUR) titolare dei contratti di fornitura con queste strutture, contratti che nascono da accordi tra la Regione e l’Associazione Italiana Ospedalità Privata (AIOP).

Prima di entrare nel merito dell’argomento conviene chiarire bene cosa si debba intendere per sanità privata. In senso stretto la sanità privata è quella che il cittadino si paga di tasca propria o tramite assicurazioni personali o attraverso i cosiddetti fondi integrativi. Quella di cui parliamo qui non è questa sanità, ma è quella componente del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che non è direttamente gestita dal Servizio Pubblico ma è gestita da privati ed opera per conto del SSN sulla base di specifiche regole.

Queste Case di Cura sono attualmente 9 nelle Marche e sono prevalentemente di piccole dimensioni (sotto gli 80 posti letto) e in due casi medio-piccole (attorno ai 100 posti letto). Non è questa la sede per entrare in ulteriori dettagli, ma ci può essere d’aiuto tentare di capire innanzitutto le differenze della storia di queste “piccole” strutture private con quelle “piccole” a gestione diretta da parte del SSN. La ricostruzione di questa storia è semplice: tutte le Case di Cura Private della Regione presenti all’inizio degli anni ’80, gli anni in cui si mise mano al riordino della rete ospedaliera da parte della Regione con il Primo Piano Sanitario 1982-1985, ci sono ancora, la gran parte dei piccoli ospedali “pubblici” invece non c’è più. A solo titolo di esempio, ieri sera sono stato ad una manifestazione in ricordo di un grande medico dell’Ospedale di Corinaldo (Alfonso Pagliariccio), ospedale che aveva ai tempi di cui stiamo parlando 198 posti letto, che erano più del doppio di quelli che avevano alcune Case di Cura Private che ci sono ancora. Un altro fatto di cui tenere conto è che le attuali Case di Cura sono tutte in centri urbani importanti (tranne che in Provincia di Pesaro dove c’è solo una piccola e “strana” Casa di Cura a Sassocorvaro Auditore voluta dagli Assessori alla Sanità del centro-sinistra) in cui c’è sempre un Ospedale Pubblico di primo livello e quindi con tutte le specialità di base più importanti. Le città interessate sono infatti Jesi, Ancona, Civitanova Marche, Macerata, Fermo, San Benedetto del Tronto e Ascoli Piceno. Da notare che al contrario tutti gli ospedali pubblici di piccole-medie dimensioni “vicini” ad ospedali “di città” sono stati chiusi (l’elenco è talmente lungo che mi limito alla Provincia di Pesaro: Macerata Feltria, Sassocorvaro, Mondolfo, Sant’Angelo in Vado, Urbania, Fossombrone, Mondavio, Cagli).

Come hanno fatto a “salvarsi” queste Case di Cura? E’ venuto loro in aiuto un Decreto Ministeriale del 2015 (il Decreto 70) che prevedeva la possibilità per le Case di Cura con almeno 40 posti letto per acuti di continuare ad operare nel caso fossero confluite in un raggruppamento di intesa con almeno 80 posti letto. Ma i “privilegi” di queste strutture non finiscono qui: non partecipano alla gestione delle urgenze e svolgono solo attività programmate e selezionate. Inoltre, hanno massima elasticità sia nei modelli organizzativi che nelle procedure di acquisizione dei professionisti.

E adesso arriviamo ai dati del bilancio ASUR che ci fanno capire la diversa storia degli ospedali pubblici e privati nel corso del terribile 2020, l’anno di esordio della pandemia di Covid-19. I dati del Bilancio ASUR evidenziano in primo luogo lo scarso coinvolgimento di queste strutture nella risposta alla emergenza pandemica. Solo una struttura privata ha dato un contributo importante, meritorio ed essenziale (Villa dei Pini di Civitanova Marche), mentre la maggioranza delle strutture ha solo genericamente risentito dei limiti imposti alle attività sanitarie dalla pandemia. Nel caso delle strutture pubbliche a gestione diretta l’impatto della pandemia sulle attività programmate è stato invece notevolissimo come del resto documentato dallo stesso bilancio d’esercizio ASUR oltre che dai risultati dello studio Agenas-MES Sant’Anna sui primi sei mesi del 2000.

Nella produzione delle Case di Cura delle Marche l’impatto negativo della pandemia in termini di valore economico della produzione non c’è stato, almeno se si confrontano i dati 2020 con quelli 2019. Per l’attività ambulatoriale l’ASUR ha sostenuto per il 2020 un costo per i residenti pari a 33 milioni di euro, e cioè quasi due milioni in più rispetto al 2019. Per l’attività di ricovero per i residenti marchigiani la produzione è stata invece di 56,23 milioni di euro e cioè 3,576 milioni in più rispetto al 2019. È invece diminuita la produzione in mobilità attività sia in regime di ricovero (5,615 milioni in meno) che in regime ambulatoriale (circa un milione in meno).

Si tratta di analisi “grezze” che vanno approfondite, ma che già dimostrano da una parte che le Case di Cura Private rappresentano una riserva di operatività importante che potrebbe essere utilizzata in corso di riemergenze epidemiche, ma dall’altra confermano la natura di “oasi felice” per alcune attività specie di area chirurgica che nelle strutture pubbliche trovano con difficoltà spazio. Non è certo un caso che in situazioni come queste la fuga verso il privato di professionisti sia nelle Marche così alto, come documentato dallo studio ANAAO che evidenzia come con il suo 6,6% le Marche siano state nel 2019 la Regione con il più alto tasso di cessazioni volontarie tra i medici pubblici, percentuale aumentata di 2,5 volte nel 2019 rispetto al 2010.

I dati del 2020, l’anno terribile della prima e seconda ondata della pandemia, confermano a mio parere in modo molto evidente l’esistenza di due mondi: quello degli ospedali pubblici e quello degli ospedali “privati. Belle esperienze di integrazione tra pubblico e privato ci sono state, ma si tratta di soluzioni che adesso vanno tolte dalla estemporaneità e messe a sistema. Con regole e soluzioni nuove cui lavorare da subito.

Claudio Maria Maffei

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