Il mondo non è una banca

In quale contesto politico si trova ad agire oggi un movimento come Dipende da Noi? Riprendendo una descrizione a suo tempo proposta da Herbert Marcuse e valida ancora oggi, si può dire che assistiamo alla chiusura dell’universo politico: non c’è spazio per vivere la democrazia. Se come Costituzione della Repubblica avessimo la legge della domanda e dell’offerta e la logica del Mercato, Mario Draghi sarebbe un buon presidente del Consiglio. Perché è serio, competente e vuole difendere il nostro Paese. A suo modo ha una visione democratica. Ma si tratta di quel tipo di “democrazia” che è ritagliata dentro le compatibilità e gli interessi del Mercato. Analogo destino tocca all’ecologia, che in quest’ottica è intesa come pura innovazione tecnologica. Ma il mondo non è una banca e la vita non è un mercato. La sola modalità per organizzare la vita comune con dignità e giustizia messa a punto dall’umanità nella storia resta la democrazia, purché non sia intesa solo come sistema di procedure, ma sia riconosciuta come l’ordine di convivenza sociale ed ecologica che punta ad attuare le due dignità, quella umana e quella della natura.

La politica dei partiti continua a dare il peggio di sé. Sostiene il governo non per convinzione, ma perché non ha alternative ed entrando in maggioranza ogni partito spera di poter gestire una fetta dei fondi di recupero europei, il che significa quote di potere nel rapporto con l’elettorato. Non deve stupire l’appoggio a Draghi da parte della Lega o di quello che fu il Movimento cinque stelle: il sovranismo e il populismo non sono altro che due varianti del virus del neoliberismo. Gran parte dell’opinione pubblica è regredita ancora una volta alla mitizzazione del salvatore della patria. A lui si chiede di risolvere ogni cosa, secondo la tradizionale abitudine di sostituire alla cittadinanza attiva la devozione miracolistica per il capo, salvo maledirlo non appena il suo periodo fortunato finirà.

Ma allora lo spazio della democrazia è chiuso del tutto? No, perché resta viva l’azione di soggetti culturali, attori sociali e movimenti di impegno civile. E perché nella storia non c’è progetto di dominio che prima o poi non sia crollato. La chiusura di orizzonte che sperimentiamo indica solo che il cammino della democratizzazione è molto lungo e richiede a ciascuno di fare la propria parte.

Noi, nelle Marche ora alla deriva sotto la giunta Acquaroli, per svolgere la nostra parte dobbiamo fare soprattutto due cose. La prima è rigenerare vita democratica nelle città. Dobbiamo agire in modo conflittuale, progettuale e generativo, costruendo alleanze sociali e culturali che poi saranno la base per alleanze politiche alle elezioni comunali. Occorre evitare di inseguire i problemi. Invece occorre far valere gli strumenti dell’autogoverno democratico del territorio: il bilancio partecipato, il Piano regolatore, il Piano delle politiche sociali, l’Osservatorio dei bisogni e dei diritti, il Piano per l’educazione e per la cultura. Ogni città deve poter diventare una Comunità locale trasformativa, dove molti soggetti collettivi collaborano per far diventare giusta ed ecologica quella città.

Allo stesso tempo, la seconda cosa da fare è costruire un’alleanza sociale e culturale per le Marche, che sia la base per un progetto politico capace di giungere al governo della Regione alle prossime elezioni. Qui non dobbiamo pensare a contatti con le segreterie dei partiti di centrosinistra, ma a una collaborazione costante tra i soggetti più avanzati che si muovono nelle città, le associazioni, i movimenti, alcune parti del sindacato e anche singole persone appartenenti a partiti (ce ne sono moltissime che non si riconoscono nella linea ufficiale della loro organizzazione). La manifestazione del 6 febbraio ad Ancona a difesa della legge 194 ha dimostrato come ci siano ragioni e spazi per riattivare l’azione comune. Più questa alleanza sarà lungimirante e radicata nel territorio regionale e più potremo davvero aspirare al governo della Regione. Riaprire lo spazio politico anche nelle Marche è possibile, perciò dobbiamo preferire il dialogo approfondito alle polemiche in chat, la formazione ai giudizi approssimativi, la presenza concreta nella vita dei territori al ripiegamento identitario, meno appelli al vento e più conflitti e progetti sulle questioni essenziali.

Roberto Mancini

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